Saturday, January 23, 2016

Interview with Romano Prodi

Former Italian Prime Minister and former European Comission President

Published in El Punt Avui newspaper in January 23, 2016

http://www.elpuntavui.cat/politica/article/17-politica/935177-mentre-hi-hagi-guerres-els-refugiats-seguiran-venint.html


PROFILE

Founder of the centre-left coalition The Olive Tree, Romano Prodi (Scandiano, Reggio Emilia, 1939) served twice as the Prime Minister of Italy (from 1996 to 1998 and from 2006 to 2008) and he was also the tenth President of the European Commission from 1999 to 2004. Former professor of economics and international advisor to Goldman Sachs, in  2012 he was appointed by the UN Secretary-General Ban Ki-moon as his Special Envoy for the Sahel. He inaugurated the 2016 Cornellà Creació business forum.


Full version (in Italian)

"È la prima volta in più di trenta anni che ho qualche dubbio sulla durata dell'Europa"

"I profughi continueranno ad arrivare in modo non controllato fin che ci saranno le guerre"

"Se non si mettono insieme la Francia, l'Italia e la Spagna non c'è alternativa alla politica economica della Germania"


A.B. - Profughi, crisi del debito, crisi istituzionale, ritorno delle frontiere...la Unione Europea, il progetto d'integrazione europea, è in rischio?

R.P. - È da più di trenta anni che studio i problemi europei ed è la prima volta che ho qualche dubbio sulla durata dell'Europa, quindi significa che la crisi è forte. Io credo che la supereremo, ma abbiamo ancora parecchi anni di difficoltà̀ di fronte a noi perché i singoli paesi ormai hanno preso una via nazionale, la solidarietà è diluita e quando si mete a rischio l'aspetto della libera circolazione delle persone è difficile parlare di una comunità. Voglio dire, se debbo venire a Barcellona con il passaporto, è finita, non c'è più Europa.

In questi giorni ci sono tensioni forti però io penso che la saggezza finirà col prevalere. Tante altre volte abbiamo avuto delle crisi, e poi sono state superate perché non abbiamo alternativa. I singoli paesi di fronte alla globalizzazione non possono restare da soli. Adesso siamo in mano alle grandi retti americane o cinesi: ecco Google, Amazon, e Bay, Alibaba...ce n'è una europea? No. Allora, possiamo andare avanti senza entrare nel nuovo mondo? No.


A.B. - Come si può mettere fine a l'esodo massivo di profughi? Cosa può fare l'Europa?

R.P. - Prima di tutto bisogna assolutamente mettere ordine in Libia ed in Siria. Senza questo i profughi faranno sempre paura. Il numero non è più grande di quello che c'era qualche anno fa. Non dimentichiamo che, prima della crisi, la Germania riceveva quasi 800.000 profughi all'anno; la Spagna, 3.000; la Francia e l'Italia fra i 300.000-500.000 all’anno. Ma siccome questo si svolgeva in una situazione ordinata non succedeva nulla, invece oggi quello che fa paura sono queste persone che arrivano proprio senza nessuna possibilità di scelta, che fuggono.

Allora l’unico rimedio è un accordo fra la Russia e gli Stati Uniti sulla Siria e la Libia. Fino che non c'è questo accordo, la Turchia, l'Egitto, i paesi del Golfo...ognuno va per conto suo ed ognuno difende i suoi amici e, quindi, avremmo la continuazione del caos.

In tanto, però, l'Europa, a sua volta, deve procedere in modo comune alle frontiere sterne, cooperare fra le diverse polizie ed i diversi servizi segreti e poi arrivare anche a una revisione degli Accordi di Dublino ed avere una politica condivisa sull'accoglienza finale dei profughi. Questo è quello che bisogna fare però, ripeto, i profughi continueranno ad arrivare in modo non controllato fin che ci saranno le guerre.


A.B. - Scozia, la Catalogna, le Fiandre...c'è un posto nell'Unione Europea per le nazioni senza Stato?

R.P. - Sono cose diverse, no? È la prima volta che la Spagna si trova di fronte a un governo di coalizione. Io ci sono nato e potrei fare dei corsi universitari sulle coalizioni. Posso dare certamente un consiglio: attenzione perché la stabilità è indispensabile. Quindi, o c'è un governo subito, in breve tempo, con un’ accordo preciso ed un "leader" preciso oppure nuove elezioni. Vi prego di non ripercorrere la via dell'Italia perché noi siamo stati molto danneggiati dalla instabilità. Questa è la prima cosa: evitate la instabilità.

Non entro invece nel discorso Barcellona- Madrid perché sarebbe poco delicato da parte mia. Quello che voglio dire però é che queste tensioni interne si risolvono molto meglio se c'è una Europa forte perché tutti i cambiamenti diventano meno rischiosi, meno drammatici.

Io dico sempre, l'esperienza che noi abbiamo avuto, molti anni fa, nel difficile problema dell'Alto Adige, si è risolto a livello europeo quando l'Austria è entrata in Europa. Abbiamo fatto accordi tranquilli e da tre decenni che non c'è nessun problema. È chiaro che non ho nessun insegnamento da dare perché è un problema vostro.


A.B. - La Germania detta l'austerità in Europa senza che Renzi e Hollande ci possano fare niente...

R.P. - Da due anni che predico, anzi di più, che ci deve essere una politica economica alternativa, ma la politica economica alternativa si può solo fare se c'è un accordo fra i paesi interessati ad averla. Se non si mettono insieme la Francia, l'Italia e la Spagna non c'è alternativa ed allora tutto diventa inutile. La Germania oggi è il paese più forte di tutti, lo è per le sue virtù, però fa gli interessi della Germania.

Ed allora, abbiamo una seria politica alternativa? Io credo di sì. La possiamo far prevalere nei tavoli di Bruxelles? Io credo di sì, ma solo se agiamo insieme e finora la Spagna, l’Italia e la Francia non hanno agito insieme.





Tuesday, January 5, 2016

Interview with Alex Bell

Editor at Rattle magazine







PROFILE

Alex Bell is a former BBC reporter and presenter, a newspaper columnist and co-founder of allmediascotland.com. He was also Head of Policy to Alex Salmond, the former Scottish First Minister (2010-13). Since last September, Bell is editor at Rattle magazine (www.rattle.scot)


Quotes

"[Independent] Scotland won’t be poor and will still be among the rich nations, but just not as wealthy as within the union. The leadership know this, but have neither the courage nor the means to tell the supporters. Thus the leadership are aiming for the best possible devolution deal"

"The [SNP] tactics are to keep the sense of injustice alive, to govern conservatively in Scotland (keeping a broad swathe of voters happy), and to oppose the Tories in London by sounding left wing"



Anna Balcells - In your article “SNP Independence is dead-start again or shut up” (http://rattle.scot/snp-independence-is-dead-start-again-or-shut-up), you point out a shift in the SNP's purpose "from independence to being Scotland's party". Why is that? Has SNP's leadership realised that an independent Scotland wouldn't be economically viable? Or has it realised it is not strong enough to persuade more people to vote for independence?

Alex Bell - The SNP has won a lot of arguments about Scotland in the UK - that is, it has raised Scotland’s profile, driven the argument over the devolved parliament and then additional powers for that parliament-. But this speaks to a dark truth: the SNP is essentially a British party. It’s critique is of the UK, it enjoys office in the UK, it likes the influence of the UK (the SNP absolutely enjoys arguments over foreign policy and global influence). The referendum exposed the fact that the SNP doesn’t really have a critique of Scotland, but rather a sense of how Scotland has fared in the UK. The referendum also highlighted how the SNP argument has relied on the promise of a wealthy Scotland - its policy platform assumes there will be no cuts, no higher taxes and no greater borrowing-. This may prove to be a mistake. Supporters are deaf to the risk that Scotland will be worse off, when this is very likely. To be clear, Scotland won’t be poor and will still be among the rich nations, but just not as wealthy as within the union. The leadership know this, but have neither the courage nor the means to tell the supporters. Thus the leadership are aiming for the best possible devolution deal.


A.B. -  If independence is not the main aim anymore, what are the SNP's new narrative and tactics, both in Westminster and in the next Scottish Parliament?

A.B. - The story is still the same: Scotland is poorly treated by London. This sense must be kept alive to justify the existence of the SNP. So now the SNP is the only defence against cuts from London -when in fact this isn’t true (Scotland could raise taxes but chooses not to)-. The tactics are to keep the sense of injustice alive, to govern conservatively in Scotland (keeping a broad swathe of voters happy), and to oppose the Tories in London by sounding left wing. Given the terrible state of the opposition parties, the SNP is likely to remain popular for a long time.


A.B. - After all the energies and debates of the 2014 referendum and after the unionist victory, what is the general mood in the Scottish public opinion? Do you guess some fatigue about the debate on sovereignty?


A.B. - There is tiredness. It’s as if people have tried to keep a really good party going, long after the fun stopped. Strangely, national debate almost stopped the day after the vote - there SNP has provided no new ideas, papers or speeches on the topic-. Starved of substance, Scottish politics are slipping into a coma.



A.B. -  What future do you foresee for the independentist movement in Scotland?

A.B. - If you want independence, you have to answer some essential economic questions: what is the currency, what are likely borrowing limits, what then can we afford. Until the SNP finds someone brave enough to tackle this, the argument is stuck. In fact, the fear is a popular movement will demand independence when the leadership have done nothing to tackle the hard questions.


Sunday, January 3, 2016

Interview with Sami Naïr

Algerian-French political philosopher and sociologist

Published in El Punt Avui's weekly magazine in January 3rd., 2016












PROFILE

Philosopher, sociologist, politician, professor, essayist, columnist...Sami Naïr (Algeria, 1946) is, above all, a lucid and global thinker of our time. In one of his usual visits to Barcelona, Professor Naïr shared with El Quadre his reflections on the international current issues.


Full version (in Spanish)

"Hollande tiene razón: estamos en guerra contra el yihadismo y, por lo tanto, adopta medidas de excepción. ¿Cuánto tiempo va a durar esta situación? Nadie lo sabe. Lo que sí es seguro es que va a durar mucho tiempo"


"En Francia las desigualdades crean una tensión pero, incluso con eso, es una minoría muy pequeña la que se radicaliza a través de las redes sociales e internet y decide entrar en una organización que da sentido a sus vidas"


"Apoyo la estrategia rusa en Siria: hay que reforzar al ejército de Al-Assad para acabar con Daesh"


"El proyecto de integración europea ha sido un enorme fracaso; hay que replantearlo totalmente"



Anna Balcells - Entramos en 2016 bajo el impacto todavía de los atentados de noviembre en París. Más allá de la conmoción y el dolor, ¿qué han significado estos ataques para Francia?

Sami Naïr - Los atentados han tenido un impacto muy importante sobre la identidad francesa, en el sentido de que los franceses han tomado conciencia de que se hallan en el ojo del huracán, de que la política de su gobierno, una política ofensiva a nivel internacional -con intervenciones en Libia, en Mali y en Siria- implicaba riesgos y de que los atentados de noviembre son el resultado de esta implicación cada vez más importante de Francia en los conflictos regionales.

Más allá de eso, la toma de conciencia también de que el país no es seguro y sobre todo de que, en el interior, tenemos problemas profundos que no se pueden solucionar únicamente repitiendo el lema republicano "libertad, igualdad, fraternidad" cuando la realidad demuestra la existencia de procesos de exclusión, de apartheid.

En este sentido, hay que hacer un esfuerzo para ver la realidad de ese país. Y la realidad es que el modelo republicano que se ha elaborado en el siglo XIX no se corresponde con la actualidad real.


A.B. - Pero son valores que siguen teniendo su vigencia, ¿no?

S.N. - Sí, pero no basta con proclamar los valores de la República; hay que ponerlos en práctica. Y lo que pide una parte importante de la población desfavorecida, del pueblo francés -y no solamente los hijos de los inmigrantes- es dar contenido a estos valores, aplicar políticas de integración social para todos, políticas de empleo, políticas que creen cohesión. Por el contrario, durante estos últimos años, ya sea bajo gobiernos de derechas o de izquierdas -en eso no hay ninguna diferencia fundamental-, se han puesto en marcha y se han legitimado políticas de desconstrucción, de destrucción del vínculo social en Francia.

Francia empezó y acabó 2015 con atentados yihadistas. Sin embargo, las reacciones en enero y en noviembre fueron distintas. Cuando se asesinaron a los dibujantes de Charlie Hebdo, se puso el acento en la defensa de la libertad de expresión mientras que, tras el 13-N, el discurso del gobierno se tiñió de belicismo. "Estamos en guerra", dijo el presidente Hollande.

Efectivamente, en el caso del atentado contra Charlie Hebdo la atención se enfocó hacia la cuestión de la libertad de expresión y la posibilidad de hacer críticas a una determinada religión, en la línea del tradicional laicismo francés, que siempre ha convertido la religión en objeto de crítica. No se trata de que el pueblo francés sea o no sea ateo, el problema no es este. La cuestión es si puedo hablar o no de religión y si lo puedo hacer de la forma que quiera. Eso ha provocado la reacción de una parte de la población que no tiene asumida la cultura francesa o que no la tiene suficientemente arraigada. Así, por ejemplo, los musulmanes y los hijos de inmigrantes musulmanes dicen "no, no queremos que se insulte a nuestra religión". Han confundido el insulto con la tradición laica de representación de lo religioso.

El otro atentado es diferente porque la autoría corresponde a una organización internacional. El Daesh atacó porque Francia está bombardeando allí, con lo cual la declaración de guerra la hizo Francia primero. Daesh ha decidido trasladar la guerra de Siria a Francia. El presidente Hollande entonces ha dicho una obviedad. Por supuesto que estamos en guerra porque estamos bombardeando. No se puede bombardear un país o una organización sin estar en guerra. Hoy en día hay una guerra entre Francia y el yihadismo militarizado.

¿Quién es el responsable? Este es otro problema. Podemos discutir sobre si había que entrar en esa guerra, si había que bombardear o no...Pero el presidente Hollande tiene toda la razón. La situación objetiva es que estamos en guerra. Y frente a esta situación, evidentemente, toma medidas de excepción, es decir, saca al ejército a la calle, otorga poderes reforzados a la policía, se mantiene una movilización permanente en los medios de comunicación contra todo eso. ¿Cuánto tiempo va a durar esta situación? Nadie lo sabe. Lo que sí es seguro es que va a durar mucho tiempo.

A.B. - La lógica militar es la que manda entonces....

S.N. - Hay dos problemas distintos, Francia y Siria. En el caso de la intervención en Siria, se trata de una estrategia militar. Y ahí hay una guerra contra Daesh. Daesh es una organización terrorista a escala planetaria que está destruyendo a Siria y a toda la región.

¿Quién es el responsable? Lo sabemos. Fundamentalmente, la intervención norteamericana de 2003 en Irak, porque son iraquíes los que combaten en Daesh, no son sirios. Estados Unidos y Gran Bretaña destrozaron el ejército iraquí y una parte importante de este ejército junto con miembros de la comunidad sunita crearon Daesh. "Han destrozado a nuestro país, ahora nosotros vamos a destrozar a toda la región", se dijeron. Es la misma lógica.

La estrategia norteamericana ha exportado el caos en Oriente Medio, nunca hay que olvidarlo. Son ellos los primeros responsables. Yo digo, siempre que tengo la oportunidad de ello, que es impensable, increíble que un presidente como Bush esté todavía en libertad o Tony Blair. Esta gente tiene que comparecer ante un tribunal penal internacional por haber destrozado un país en contra de la legalidad internacional. Eso no se dice en Occidente, pero se dice mucho en Oriente Medio porque todo el mundo lo piensa. Los criminales andan sueltos, viven bien y a nosotros nos destrozan el país. Nos vienen con los derechos humanos, con la libertad...¿qué es eso? El doble lenguaje de Occidente es insoportable fuera de sus fronteras. Hay que entenderlo.

Ese es un problema militar. ¿Cómo se va a solucionar? Lo podemos discutir. Yo considero que no se puede solucionar únicamente con una intervención aérea desde el exterior. Creo que los únicos que pueden solucionar el problema sirio son los sirios y que, a pesar del carácter dictatorial del régimen de Al-Assad, a pesar del hecho de que este señor sea un carnicero que también debe ser juzgado por la comunidad internacional y previamente por las leyes de su país, hay que fortalecer al ejército sirio, apoyar este ejército para acabar con Daesh.

Y añado algo que, evidentemente, no es políticamente correcto y es que creo que los rusos tienen toda la razón. Apoyo su estrategia. Considero que Putin ha analizado bien la situación. Putin sabe que no hay alternativa al Estado sirio. Una alternativa sería el caos. No hay oposición democrática, los turcos están apoyando en el norte a Al-Nusra, que es el nombre sirio de Al-Qaeda. ¿Y quién financia a Al-Nusra? Arabia Saudí, que financió a Daesh durante dos años, y Qatar, que ha financiado Daesh durante cuatro o cinco años. La realidad es esta.



A.B. - ¿Cree que la resolución del Consejo de Seguridad de 18 de diciembre fijando una hoja de ruta para una solución política en Siria supone un paso adelante?


S.N.- Es un paso positivo, pues permite una colaboración, aunque tibia, entre Estados Unidos y Rusia. Pero el acuerdo es muy frágil ya que no dice nada sobre Al-Asad ni sobre los integristas de Al-Nosra (versión siria de Al Qaida), apoyada por Turquía y Arabia Saudí. Creo que estos dos países van a torpedear el acuerdo por razones diferentes. Además, el plazo es casi de dos años y nadie sabe quién presidirá Estados Unidos ni si se van a cumplir los objetivos. Es un acuerdo más simbólico que práctico. Pero le deseo buena suerte.


A.B. - ¿Cuál es el objetivo final de Rusia en Siria?


S.N. - Los rusos intentan evitar el caos, porque ellos saben que el caos en Siria significa el caos en Rusia también porque allí tienen el problema de los chechenos. Los servicios de información calculan que hay más de 20.000 combatientes chechenos en Daesh. Todos los integristas, los terroristas, se van allí para vengarse de Occidente.

Hemos creado ahí una bomba humana. Frente a eso, la razón de estado consiste en decir: si queremos estabilizar esta región, hay que apoyar a los estados y a los ejércitos que pueden hacerlo. La democracia la discutiremos después, pero primero hay que acabar con el caos. Esta es mi opinión respecto a Siria.



A.B. - Me comentaba que una cosa es la situación en Siria y otra lo que está ocurriendo en Francia...


S.N. - Francia es otro problema, sí. No hay que establecer una correlación directa entre lo que pasa en Siria y lo que pasa en las 'banlieues'. Hay centenares de miles de chicos en las 'banlieues' que no toman las armas para luchar contra el gobierno. Lo que hay que saber es que hay 8 millones de pobres en Francia, de los cuales 4 millones viven bajo el umbral de la pobreza en las 'banlieues', con familias totalmente desestructuradas, con falta de autoridad parental. Una parte importante de estos jóvenes se sienten totalmente ninguneados, no pueden encontrar trabajo, están marginados, viven en condiciones horrorosas en estos barrios, en uno de los países más ricos del planeta, cuyo PIB es uno de los más importantes de Europa.

Las desigualdades crean una tensión pero, incluso con eso, es una minoría muy pequeña la que se radicaliza a través de las redes sociales e internet y decide entrar en una organización que da sentido a sus vidas.

El problema de la integración, pues, es diferente. Es un problema social global que, evidentemente, debe hacer hincapié en los más excluídos.Si uno quiere entender lo que está pasando en las 'banlieues' hay que invertir la situación: ¿Por qué el Frente Nacional se ha convertido en el primer partido en Francia? No son la causa las 'banlieues', sinó el hecho que el electorado popular ha sido abandonado por la izquierda y la derecha desde hace treinta años. Y ahora el Frente Nacional es el primer partido entre este segmento de la población y, lo que es mucho más grave, cada vez consigue más apoyo entre la juventud francesa.

La juventud francesa la conocí yo en los años 60 y 70. Era una juventud de extrema izquierda. Las organizaciones mayoritarias eran comunistas. Las principales ciudades donde está ahora el Frente Nacional eran ciudades gobernadas hace veinte años por los comunistas, los socialistas. ¿Es que esta gente se ha vuelto racista, se ha vuelto fascista? No, pero el Frente Nacional está utilizando el discurso social-nacional abandonado por la derecha y la izquierda, lo que hace que hoy tengamos el 60% de la población, como mínimo, que no se siente representado por estos partidos.



A.B. - Volviendo a la situación en Siria. Usted defiende el apoyo al ejército sirio, al ejército de Al-Assad, para derrotar a Daesh. ¿Cabe la posibilidad de que las potencias utilicen a Al-Assad para acabar con los yihadistas y que después lo aparten del proceso de transición política que se abra en Siria?

S.N. - Vamos a ver, estamos ahí en una lógica de razón de estado. ¿Cree usted que Al-Assad va aceptar entrar en este juego si sabe que al final lo van a destrozar?


A.B. - Nadie se lo va a decir...

S.N. - El problema no se plantea de esta manera. Eso lo dicen los políticos para justificar ahora la necesidad de ponerse de acuerdo con Al-Assad. O sea, ellos, que durante tantos años decían que había que acabar con Al-Assad, juzgarlo, ahora dicen que hay que pactar con él. Pactamos con él y después lo dejamos fuera. La política no funciona así, siento decirlo. La realpolitik es otra cosa.


Por eso digo que el problema va a durar mucho tiempo. Creo que al apoyar a Al-Assad y a su ejército, es decir, al entrar en la estrategia rusa, se podrá acabar con Daesh en Siria pero no se podrá acabar con Daesh en todas partes. Si pierde la guerra sobre el terreno, lo que va a hacer Daesh, militarmente hablando, es irse a otro lugar. Ya está en Libia, en Irak, en Afganistan y puede extenderse a Israel, Palestina, a todos partes.


Estamos frente a un problema general y la solución debe ser general, es decir, hay que vencer militarmente y privar de la lógica del espacio a Daesh, porque la diferencia entre Daesh y Al-Qaeda es muy sencilla: Al-Qaeda no quiere territorio, hace la guerra desde muchos lugares en el mundo. Tiene bases en todas partes (la palabra al qaeda en árabe significa la base), la base es como una mochila y la llevamos a cuestas con nosotros. Por el contrario, Daesh quiere conquistar terreno para crear un califato, un estado. No lo van a poder hacer, por supuesto, pero los tendremos frente a nosotros.


A.B. - ¿Qué habría que hacer para combatir a Daesh desde otros frentes además del militar?

S.N. - Hay tres problemas fundamentales que resolver: el primero, la reconstrucción del Estado iraquí. Y aquí queda en evidencia el acuerdo cínico firmado entre Estados Unidos e Irán, porque Irán ha aprovechado la destrucción de Irak para imponer un poder sin límite de los chiítas en ese país.

Y es que desde la creación de Irak, siempre hubo un equilibrio a favor de los sunitas frente a los chiítas. Habría entonces que construir un régimen federal en Irak para permitir a todas la comunidades confesionales disfrutar del mismo poder, tal y como ocurre hoy en Líbano, donde los cristianos son una minoría pero tienen el poder más importante por serlo y para protegerse de la mayoría. Se puede encontrar este tipo de solución. Esa es la primera cuestión. ¿Lo quieren los americanos y los iraníes? Pueden aceptarlo si la situación sigue sin control.


A.B. - ¿El segundo problema fundamental que resolver?

S.N. - Reconstruir Siria, hacer que los refugiados puedan volver a su país. Para eso se necesita un plan de desarrollo económico muy importante. La comunidad internacional y Europa pueden actuar en esta dirección y negociarlo con el futuro régimen de transición sirio. Al-Assad sabe muy bien que no va a gobernar eternamente, que su ciclo ha terminado. Los rusos lo saben también. Si la Unión Europea y la comunidad internacional ofrecen a Siria un plan de reconstrucción económica, las fuerzas políticas democráticas sirias lo van a aceptar y la suerte de Al-Assad se pactará, esto está claro.

Y en tercer lugar, está el problema de Palestina e Israel. Es muy importante, es fundamental, porque es el problema que ha alimentado el desarrollo de los movimientos extremistas en Oriente Medio. Es el núcleo de todo. Entonces hay que, por fin, encontrar una solución y los americanos tienen la llave, no los israelíes. Porque si Estados Unidos lo deciden lo pueden hacer. No lo han hecho hasta la fecha y la alternativa a esta situación es seguir con la lógica del caos.


El acuerdo debe ser global. No es un acuerdo que se pueda alcanzar en un día, se va a desarrollar de manera gradual, pero con una línea, un objetivo y con la posibilidad que la comunidad internacional por fin tenga una visión sobre el porvenir de esta región. Es absolutamente necesario, de lo contrario no solucionaremos el problema.

Mire lo que está pasando en Afganistan. Estados Unidos están ahí des de 2001. Estamos en 2016 y no han solucionado nada. Si el ejército norteamericano se marcha mañana, pasado mañana tendremos a los talibanes en Kabul. No han solucionado absolutamente nada porque no supieron plantear el problema de forma estructural, es decir, no ayudaron económicamente a estos países, no propusieron un gran plan de paz para la región. No lo hacen porque no quieren hacerlo.



A.B. - Bush irrumpió en la región con una estrategia que se reveló desastrosa, pero no se ve una visión alternativa a medio plazo. ¿La ha tenido Obama?

S.N. - Estados Unidos no tiene una estrategia, es verdad. Y Obama no ha podido hacer nada aunque ha sido el único presidente que ha intentado hacer algo. Lo hizo históricamente también Carter. Obama no ha podido porque frente a él se levantaron los lobbies: el militar, los confesionales, económicos, los financieros aliados de Arabia Saudí...porque detrás de todo esto hay otro problema: ¿Dónde está la fuente de financiación hoy del terrorismo? En los países que tienen el petróleo.


A.B. - ¿Las monarquías del Golfo siguen financiando a Daesh? ¿A través de qué canales?

S.N. - Por supuesto. No directamente, no oficialmente, nunca lo hacen. En estos países no hay diferencia entre lo privado y lo público. Arabia Saudí es un país gobernado por 15.000 "príncipes" que pertenecen a varias familias y cada uno tiene su propio negocio. Han financiado de esta manera durante mucho tiempo a Al-Qaeda hasta que Ben Laden se volvió en contra de ellos. Y han financiado también a los sunitas de extrema derecha religiosos, la actual Daesh. Les financiaron frente a los chiítas porque estos, a su vez, lo estaban por los iraníes



A.B. - Eso no impide que Arabia Saudí y Qatar formen parte de la coalición internacional que bombardea a los yihadistas en Siria e Irak...

S.N. - Ahora participan en la coalición claro porque, como ocurre siempre, el Frankstein se ha escapado del doctor. La situación recuerda a la de Libia. ¿Qué hicimos con Gaddafi? Es un carnicero, dijimos. De acuerdo, pues creemos una zona de exclusión aérea para que no pueda bombardear a su pueblo y ayudemos a las fuerzas libias, a su ejército, mandando consejeros, asesores, armas, etc para que gane.

No, nada de eso se hizo. La resolución de la ONU prohibía la intervención terrestre. Pero se violó la resolución, se fue sobre el terreno y se destrozó al régimen libio. ¿Qué hicieron? Hicieron lo que Bush proponía, es decir, una estrategia de cambio de régimen.

Entonces, hay que luchar contra Daesh pero la lucha contra el terrorismo no es sólo militar y mediante bombardeos. Debe ser también una lucha política con un plan global de paz en la región.



A.B. - A propósito de la guerra en Siria, hemos visto este 2015 en Europa una imagen que nos ha colmado de vergüenza: colas masivas de refugiados recorriendo a pie el continente para hallar asilo. ¿La crisis de los refugiados ha puesto al descubierto la miseria moral de Europa, los límites de su solidaridad?

S.N. - Absolutamente: la miseria moral de Europa. Sí, ha puesto en evidencia la falta de generosidad, la falta de humanidad en un continente que inventó el humanismo, la democracia, los derechos humanos.



A.B. - El presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, advirtió en una reciente entrevista al diario 'Die Welt' que la UE está en peligro a causa de la falta de solidaridad y de los egoísmos nacionales. Llegó a decir que la UE, el proyecto de integración europea, podría dejar de existir en diez años. ¿Exagera Schulz?

S.N. - Creo que no exagera. Creo que se ha dado cuenta perfectamente de que el proyecto ha muerto. Pero yo no confío en él y en los suyos para reconstruir el proyecto europeo que ellos mismos han llevado al abismo.

¿Quiénes son los responsables de esta situación? El concepto inicial de la construcción europea era éticamente e identitariamente bueno. Pero el contenido se manipuló totalmente y se transformó a partir de 1986, cuando se aprobó el Acta Única, con la cual se decidió construir un mercado único y, a continuación, una moneda que se correspondiera con ese mercado e imponer una camisa de fuerza a todos los países y, al mismo tiempo, abrir la Unión Europea a las finanzas mundiales. Fronteras para la circulación de los trabajadores, pero no para la de los bienes ni los capitales. A partir de este momento, la cuestión era ¿qué queremos: construir Europa o hacer de Europa un polo del desarrollo económico mundial dentro de la globalización pero sin identidad común?

Y la realidad es lo que pasa ahora. Desde 1991, con el Tratado de Maastricht, la Unión Europea entró en una recesión estructural, una caída del crecimiento a causa de una igualación a nivel económico y, a partir de este momento, hemos visto crecer el paro (ahora tenemos 14 millones de parados en Europa), la destrucción de los modelos sociales del conjunto de los países europeos, la privatización de las políticas públicas, de las jubilaciones, de la educación, de las universidades...Hemos visto, en realidad, no la construcción de la Europa política, social, identitaria que queríamos, sino de una Europa ultracapitalista, ultraliberal y que defendía los intereses del mercado a escala internacional.

Todo eso es un enorme fracaso. Lo siento mucho porque el proyecto europeo es lo único que puede salvar a Europa.Hoy ninguna nación puede pretender asumir el papel de dirigente en Europa, ni Alemania, ni Francia ni Gran Bretaña. La única posibilidad es construir una Europa unida políticamente, pero para eso necesitamos replantearnos totalmente el proyecto europeo. Y tener primero un proyecto político, construir una gran confederación porque la federación ahora es imposible porque en todas partes se defiende a la nación, ya veremos dentro de un siglo.

A.B. - ¿Qué hacemos entonces? ¿Desmantelamos las instituciones comunitarias, cerramos la Comisión, el Parlamento de Estrasburgo?
S.N. - Estas instituciones no tienen recorrido. ¿Dónde están las políticas públicas europeas? No existen. Hoy tenemos únicamente dos políticas comunes: la comercial, que viene con el Acta Única y, por otro lado, el euro, que ni siquiera es una moneda común, porque no la compartimos los 28 estados miembros.

¿Qué hacen estas instituciones? Fíjese, han decidido acoger a los refugiados. ¿Cómo lo han hecho? Resulta que tenemos a 8 millones de personas pidiendo socorro y la Comisión se reúne y dice "dentro de dos años, vamos a acoger 20.000 personas". España, la gran España, ha acogido a 12 personas. ¿Se lo puede imaginar? Estamos ante una inmensa hipocresía. Por eso digo que hay que replantear el proyecto europeo, hay que ser más europeísta que nunca pero de manera realista, es decir, queremos una Europa confederal, queremos un Parlamento Europeo que represente la realidad de las naciones y no diputados desvinculados de la soberanía nacional que están ahí durante cinco años cobrando sueldos y votando directivas que no tienen significado.

Los diputados europeos tienen que tener poder, pero el poder lo deben tener delegado por sus gobiernos nacionales, por su parlamento nacional. Debemos reorganizar totalmente el sistema.

Lo que ocurre hoy es que no existe un interés general europeo. Me acuerdo que siendo diputado europeo en 2000 tuvimos un debate sobre las consecuencias de la ampliación de la UE al este de Europa: Esa gente va a entrar, esa ampliación va a transformar totalmente el espacio europeo, pero ¿cuál es nuestro interés común con Estonia, con la República Checa, con todos esos países? ¿Cuál es el interés general?

Hay entre nosotros diferencias de cultura, de historia, lingüísticas, sociales, en todos los niveles. Es todo mucho más complejo, necesitamos una estrategia cooperativa basada en la representatividad real y en una concepción de apoyo a las regiones y a los países menos desarrollados en Europa.

La situación de crisis en España no es normal. Evidentemente decirlo así ahora parece increíble, pero yo considero que un país como España hubiera necesitado mucha más ayuda. La UE dio ayudas para construir infraestructuras, pero no ha creado las condiciones de desarrollo económico de España y de Grecia o Irlanda. No había verdaderamente una concepción común europea.


El proyecto europeo es algo muy complejo. No tenemos una nación europea, tenemos 28, cada una con su bandera, su historia. Mire la bandera europea. Es el resultado de la inexistencia de una identidad común. Mire los billetes del euro, las monedas. No veo a Cervantes en los billetes, no veo a Martorell, a Victor Hugo, a Dante. Veo puentes.


A.B. - Se acaban de cumplir veinte años del llamado Proceso de Barcelona, un ambicioso proyecto impulsado por la Unión Europea para crear una zona de paz y prosperidad en el Mediterráneo. Visto todo lo que ha ocurrido durante estas dos décadas, ¿qué futuro le ve a la región?

S.N. - Creo que el Proceso de Barcelona ha tenido éxito en lo que se refiere a abrir las fronteras de los países del sur a través de los acuerdos de asociación. Prácticamente se han firmado con todos los países y se han podido abrir las barreras arancelarias. Eso es lo que interesaba a la Unión Europea para vender mercancías. El resto es un fracaso global.

Ha tenido un poco de éxito también a nivel de la cooperación policial entre los países del norte y del sur. Con Marruecos, con Argelia, con Túnez, con Egipto, los servicios trabajan bien.

Pero en cuanto al apartado de la sociedad civil, fracaso total. Porque no se puede poner como objetivo el diálogo entre la sociedad civil y al mismo tiempo cerrar las fronteras a la libertad de circulación de personas tal como lo hemos hecho. Es imposible. Salvo que consideremos que los intelectuales que invitamos aquí durante tres días son representativos de estos países. Para mí no lo son. Yo pienso en las sociedades, es algo totalmente diferente.

Para mi, el Proceso de Barcelona ha acabado. Hay que olvidarlo y pensar en otra cosa. ¿Qué hacer? Lo que iba escondido en la época del Proceso ha estallado ahora. Y lo que iba escondido es la situación de violencia tremenda en este entorno mediterráneo y la guerra potencial. Se veía únicamente en aquella época a través del conflicto israelo-palestino. Ahora se ha generalizado en todas partes por la destrucción del Estado iraquí, por la situación del Estado libio, las primaveras árabes...todo eso ha contribuido a crear una situación de crisis.

Evidentemente, la situación es de urgencia. Hay que poner en marcha una gran política europea de ayuda al desarrollo económico del sur. Es la única oferta creíble, un gran plan Marshall según las posibilidades de cada país con un sistema de préstamos muy estudiado para permitir que estos países puedan estabilizar sus poblaciones.

Le digo una cosa: en 2050, tendremos 617 millones de habitantes en toda la cuenca mediterránea. Y, de estos 617 millones, sólo un 30% serán europeos. Luego, el desafío es enorme. No se puede permitir que estos países sigan en situación de estancamiento económico. Hay que elaborar una gran estrategia desde la UE a partir de políticas de cooperación reforzadas previstas por el Tratado de Maastricht. Hay que crear oportunidades económicas al otro lado del Mediterráneo, lo que aprovechará fundamentalmente a la UE porque allí es un mercado enorme.

Y detrás de eso hay otro problema que no se ve y que constituye el segundo reto: la situación en el Africa subsahariana. Porque esta región en 2050 tendrá más de 2.000 millones de habitantes. Nigeria va a ser la gran potencia africana; en 2030 va a tener unos 220 millones de habitantes.

Estamos, pues, ante unos desafíos enormes, pero la pregunta la tengo que plantear yo: Con estos dirigentes europeos, ¿cómo se puede esperar una solución a estos problemas? No soy pesimista, me gustaría ser siempre optimista, pero cuando veo la realidad, me parece dramática.